venerdì 9 settembre 2011

Ci sarà pure un dio del rugby...

In occasione del mondiale di rugby, iniziato oggi,  mi fa  piacere pubblicare un racconto, scritto qualche anno fa, in onore dello sport più bello..
 
CI SARA’ PURE UN DIO DEL RUGBY…

Albert “Bull” McTail non era nato per il rugby. Il rugby era nato per Al “Bull” McTail.
Se nell’Atene del IV secolo si fosse giocato a sphaira ogeides (palla ovale), a Platone, mentre passeggiava all’ombra dei colonnati dell’Accademia, volendo esprimere l’idea di “rugbità”, sarebbe bastato mostrare ai suoi allievi il famoso Megathymos Tayros Ourà, l’invitto campione olimpionico di rugby ellenico.
Invero, già alla nascita, il piccolo non diede alla madre neppure il tempo di sentire la prima doglia che aveva già cominciato a spingere come un matto e, se non fosse stato per la prontezza della levatrice che lo trattenne con le robuste braccia da lavandaia, sarebbe finito a terra trascinandosi dietro  ostetrica, cordone ombelicale e puerpera.
Sarebbe stato possibile non affibbiargli il soprannome di “Bull”, quando cominciò a camminare a sei mesi, spingendo da solo la carrozzina con la testa e le “manine” già grandi come mezzi badili? Oppure, appena all’asilo (ma andrebbe bene per l’intero ciclo di studi), dove risolveva le poche liti con una semplice testata che mandava nel mondo dei sogni qualsiasi imprudente rompiscatole? E quando nessuna maestra, e neppure il più robusto dei bidelli, riusciva mai a trascinare fuori della classe quel bambino che, certo delle proprie ragioni, puntava le gambe e non c’era verso di spostarlo di un centimetro? 
Ci si aspetterebbe che a tanta forza corrispondesse limitata intelligenza, e invece Albert era davvero acuto (a scuola sempre uno dei migliori), e anche un po’ filosofo. Fin da bambino aveva capito il senso della vita (ammesso che esista). Non un’infanzia candida, macchie di dolore qui e là: la morte dei nonni affettuosi, la lunga malattia della madre, la separazione dei genitori, e la consapevolezza che il tempo passa, altroché passa, e la giovinezza dura poco, troppo poco. E’ per questo che Al, a meno di provocarlo fino all’esasperazione, non se la prendeva mai. Dall’alto (si dovrebbe dire “dal grosso”) della sua forza e stabilità, dispensava a tutti serenità di giudizio e calma serafica. Era una sorgente di energia positiva. Stargli vicino significava sentirsi bene, rilassati. Lo si sarebbe potuto assumere come gigantesco orso di peluche, oppure cuscinone da divano, e avrebbe garantito consolazione e conforto. Fortunati quelli che lo avrebbero amato e che sarebbero stati da lui amati.
Esaurita la premessa, chi potrebbe immaginare che al dio del rugby sarebbe potuto sfuggire un tale esemplare? Già, il dio del rugby…
C’è chi si domanda dove siano finiti gli dei. E spesso ce lo si domanda con nostalgia. Gli dei erano roba nostra, vicini di casa da ammirare per la forza, non per l’inarrivabile perfezione. Che ce ne facciamo di un dio indifferente, accigliato, sempre pronto a giudicarci, che manda il proprio figlio al massacro. Ma che dio è uno che sacrifica il figlio? Vuoi mettere quello cui ci si può rivolgere come all’amico che ti protegge dai bulli del quartiere, che rutta più fragorosamente di tutti e si fa le ragazze più belle? Questi erano gli dei dell’Olimpo. Forse gli immortali si aggirano ancora tra noi, ciascuno con le proprie energie intatte, gelosamente custodite e pronte a riemergere quando il più giovane dio di ebrei e cristiani sarà definitivamente sfrattato da questo mondo.
Uno Zeus in jeans e camicia beve una birra, seduto su una panchina, ai docks di Londra. Si diverte a osservare i facchini che si affaticano intorno a grandi casse da scaricare. Ah, gli umani! Non si è mai abituato del tutto a queste povere creature che si affannano come fossero eterne, e  la cui vita è invece così breve. Dopo migliaia di anni gli hanno suscitato una tale compassione che avrebbe voluto cambiare la legge e renderli tutti immortali, ma non ha il potere di farlo. Fino a quando ci sarà l’Altro, che ha decretato la morte come irrinunciabile condizione della specie umana, non potrà fare niente.
A zonzo per il mondo, gli dei, attenti osservatori dei miseri esseri umani, si preoccupano di preservare i più meritevoli, coloro in cui risplende la loro stessa scintilla divina, dall’oblio, dall’anonimato, dalla morte prematura. E’ il solo modo che hanno di restituire alle donne e agli uomini ciò che il destino ha tolto loro. Certo, non ce la fanno per tutti, ma solo per alcuni. Per quanto si impegnino, sono molti di più quelli che sprofondano nella polvere del tempo. Vedi quel giovane pastore errante dell’Asia che spinge il gregge oltre i più lontani orizzonti e parla con la luna? Chi sa che in lui potrebbe germogliare il più grande scrittore di tutti i tempi, quello che troverebbe con naturalezza la perfetta sintesi letteraria tra Occidente e Oriente? Dov’è quel dio che lo salverà dai lupi famelici della steppa per accompagnarlo, qualche decennio più tardi, a Stoccolma a ritirare il nobel? Generazione dopo generazione, gli dei ne salvano centinaia, a volte migliaia. Eroi, artisti, campioni, geni, santi sono opera loro. Non sappiamo riconoscere nel cercatore di talenti, nella maestra, nell’allenatore, nel cacciatore di teste, nell’insegnante, nell’impresario, nell’agente, Ares o Febo Apollo, Atena o Afrodite, Hermes o Poseidone, Era o Artemide.  Sotto spoglie mentite, celano la propria terribile, insopportabile bellezza, e donano ai loro prescelti perlomeno l’immortalità nelle pagine dei libri che saranno sfogliati nei secoli.
Torniamo ad Al.
Il piccolo Al viveva a Castletown, uno dei paesi più desolati, sulla costa, all’estremo nord delle Highlands scozzesi, quasi di fronte alle isole Orcadi. Al apparteneva al clan dei McTail, detti così perché da sempre tutti i membri della famiglia portavano i capelli lunghi con la coda. Il padre era il maestro elementare della scuoletta locale, la madre impiegata nell’unica banca del paese. A sei anni, mentre tornava da scuola, Al venne sfidato a “spingi tu che spingo io” (un’usanza delle sagre locali) da alcuni compagni. Da una parte Al, dall’altra otto bambini. Mentre Al li ricacciava indietro, passo dopo passo, il dio del rugby, avvertito forse da Hermes che instancabilmente vola da una parte all’altra del pianeta, si materializzò nei panni di un vecchio allenatore inglese di rugby, tale John Woodcock, il quale, malgrado tante ne avesse viste, sgranò incredulo gli occhi e seduta stante decise di andare a parlare ai genitori del piccolo. Fu così che tre giorni dopo quel colloquio, Al si ritrovò a Londra, nella “fortezza” di Twickenham, per il suo primo allenamento. La voce si era diffusa e lo stadio era pieno come se avessero giocato i Leicester Tigers. L’allenatore spiegò con due parole a quel bambino che cosa avrebbe dovuto fare: “Spingi, ragazzino!”. E quello spinse, e spinse, e spinse,  finché il pacchetto avversario venne portato a destinazione oltre la linea di fondo del campo. Da quel giorno in poi Albert McTail non smise mai di spingere.
La mischia era pane per i suoi denti, muleta rossa per le sue incornate. Piantava i piedi nel fango e giù di collo e spalle, di braccia e di gambe. Per gli avversari era come spingere contro il toro di bronzo di Wall Street, “Bull” appunto, e non c‘era verso. Quando Al spingeva, il pack avversario si apriva come il mar Rosso al cospetto di Mosè, si squarciava come la fiancata del Titanic di fronte all’iceberg, si alzava come umida terra davanti al vomere. Era indifferente metterlo pilone sinistro o destro o addirittura tallonatore. Ovunque si posizionasse avanzava e avanzava e ogni volta la palla era conquistata. Anno dopo anno, Al non sbagliò mai una mischia. La sua fama crebbe. Rimase sempre la stella di tutte le formazioni dei Tigers, della nazionale inglese (in cui giocò per tutta la carriera, malgrado fosse scozzese, perché lì crebbe come atleta e come uomo) e dei British and Irish Lions. Venivano a vedere i suoi 185 centimetri d’altezza per 125 kg di peso da ogni parte del mondo. Dalle terre inglesi all’Argentina, dalla Francia al Sudafrica, dall’Australia alla Nuova Zelanda, fino alle più lontane isole del Pacifico. In una di queste, tra le più sperdute, Niue, si diffuse un vero e proprio culto, quello di Tahili, il giovane dio che sposta i vulcani.
Naturalmente non si contano le mete che Al riuscì a realizzare in innumerevoli partite. Quando, in un modo o nell’altro, riusciva a prendere la palla nei ventidue avversari, era oramai troppo tardi per arginarlo. Che si mettessero in due, tre, oppure quattro, “Bull” sfondava e schiacciava la palla a terra, e ogni volta erano ovazioni di tutto il pubblico in delirio,  di entrambe le tifoserie. Godeva della stima di tutti, mai una protesta con l’arbitro, mai una furbizia con gli avversari, mai una cattiveria, solo pura determinazione, lealtà e tenacia. Un uomo di altri tempi, purtroppo, che avrebbe fatto sfigurare i cavalieri della tavola rotonda.
E veniamo all’impresa per la quale, anche non avesse fatto altro, sarebbe stato ricordato per sempre negli annali del rugby. Ai mondiali del 2011 in Nuova Zelanda, ovviamente gli All Blacks arrivarono come i favoriti dai pronostici, mentre gli inglesi erano dati come l’unica nazionale europea che avrebbe potuto rovinare la festa ai neozelandesi. Il girone eliminatorio, i quarti e le semifinali diedero ragione ai bookmakers. Gli All Blacks sfoderarono la migliore nazionale dal 1987 e travolsero tutte le squadre avversarie con punteggi da basket. Si pensi che in semifinale distrussero il Sud Africa 61 a 9. Gli All Blacks non subirono mai una meta e ne fecero a decine. Dall’altra parte l’Inghilterra ebbe un percorso decisamente meno brillante. Anche gli inglesi non subirono neppure una meta, ma ne segnarono molte meno, e in semifinale furono a un passo dall’essere eliminati dalla Francia: vinsero 7 a 6, ma il mediano francese sbagliò una punizione all’ultimo minuto.
Il giorno della finale il cielo era cupo e pioveva a dirotto. Il rugby non si ferma mai per impraticabilità del campo e quindi si giocò. Le due squadre  si affrontarono in una specie di palude e furono devastate dalla fatica. All’89’ la Nuova Zelanda stava vincendo 3 a 0. Una punizione di Carter, nel secondo tempo, sembrava aver avuto ragione degli ostinati inglesi. Fu a un minuto dalla fine che Al ebbe la palla nei propri ventidue e decise che non l’avrebbe passata. Gli vennero in mente le parole di Churchill quando, nel 1940, disse ai suoi connazionali: “Vi prometto lacrime, sudore e sangue”. E alla fine il Regno Unito aveva pur sconfitto l’Asse. Al pensò che nessuno, avversario o compagno, gli avrebbe portato via quella palla. Al pensò che nessuno, avversario o compagno, lo avrebbe fermato. E andò. La squadra era larga, schierata per l’attacco, in attesa che Al passasse. Ma The Bull non passò e cominciò  ad avanzare dritto per dritto. Alla linea dei 10 metri nella propria metà campo, dopo che aveva travolto tre o quattro All Blacks, tutti avevano capito le sue intenzioni. E a centrocampo si formò la maul inglese, con  tutti e quindici i giocatori, Al in testa, l’ovale ben stretto tra le mani.  A loro volta tutti gli All Blacks cercarono di formare un muro davanti a quel rullo compressore. A quel punto Al cominciò a “pompare” sulle gambe, come si dice nel gergo del rugby. Metro dopo metro, nel fango, nell’acqua, nell’erba fradicia di pioggia e sputi, calpestando uno dopo l’altro gli avversari  che cadevano e poi correvano a rischierarsi, Al avanzò. Alla linea dei 10 metri il pubblicò urlava ancora. Poi, lentamente, lo stadio, un po’ alla volta, ammutolì. Alla linea dei 22, con The Bull che si stava trascinando dietro tutta l’Inghilterra, con gli All Blacks che cadevano come birilli, il panico si diffuse in tutta la Nuova Zelanda. La maul inglese procedeva come la prua d’acciaio di una nave rompighiaccio che frantuma il pack. A cinque metri dalla linea di meta, gli All Blacks tentarono l’ultima, disperata difesa e riuscirono per un attimo a staccare Al dai compagni. Ci fu un boato del pubblico che aspettava di vedere il pilone inglese franare finalmente a terra, placcato dai quindici neozelandesi. E fu allora che il dio del rugby sorrise. Al entrò a testa bassa nel pack avversario, da vero toro. Scomparve con la sua maglia di fango, che era stata bianca, nella massa nera degli All Blacks.
E fu meta.
E fu silenzio. 
Poi, mentre gli All Blacks, “aiutati” dagli inglesi che li strattonavano, si alzavano uno dopo l’altro dal mucchio sotto il quale c’era Al, uno spettatore cominciò ad applaudire e in breve tutto lo stadio iniziò ad applaudire e a scandire in coro il nome di Al. Il fatto è che Al non si alzò per ricevere l’abbraccio dei compagni, né le ovazioni del pubblico, né poté alzare al cielo la coppa del mondo vinta per la seconda volta dall’Inghilterra, né ritornò in patria per godere del trionfo in Trafalgar Square. Il suo grande cuore non ce l’aveva fatta. L’immenso sforzo l’aveva spezzato. E il dio del rugby, per la prima volta da quando era dio, cioè da sempre, pianse…

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