giovedì 15 settembre 2011

Il Cherubone

La prima puntata di un racconto che si apre all'insegna dell'ironia ma un po' alla volta volge verso coloriture drammatiche...

 
CHERUBONE


INTROITUS

Non è che non GLI si facessero notare i difetti di costruzione e gli errori di calcolo, ma se c’è un  neo in LUI è la testardaggine. Tutto era, e sarebbe stato per sempre, “perfetto”. Già, perfetto… L’abbiamo visto, poi, quanto perfetta è la Macchina: derive cosmiche e scontri di galassie e buchi neri e curvature spaziali e catastrofi e cataclismi e devastazioni e distruzioni ed estinzioni e…
E infatti, quando ha cominciato a capire (meglio tardi che mai!) che le cose non potevano funzionare, SI è ritirato oltre il settore delle nebulose perdute e da allora non LO si è  più visto.
C’è chi dice che SE ne stia tutto il giorno imbronciato a rifare calcoli su calcoli per dimostrare di non aver avuto torto e che prima o poi la Macchina riprenderà a girare “perfettamente”. La “perfezione” è sempre stata la SUA ossessione; lo è stata per LUI e per QUELLI prima di LUI. Ma LORO non hanno capito che il fattore “perfezione” non è proprio di questo universo, bensì di altri universi, forse, come pare riferiscano le Paleocronache di  Cloidvaitoo, risalenti alle ere prezoiche, che però nessuno ha mai potuto consultare…
Comunque sia, anche quella volta della creazione degli angeli ne combinò una delle SUE.
Si deve sapere che gli angeli sono fatti di “nembrasia”, la quale non è inesauribile e si trova in quantità trascurabili solo nelle miniere del sistema di Umolanoj. Al termine della Grande Estrazione se ne erano ricavati 1.111.956.000 woodcock che, divisi per 48.000 (quanti aveva deciso sarebbero dovuti essere gli angeli, distinti in quattro squadre: Serafini, Troni, Dominazioni e Cherubini), risultavano 23.165,75 w. per angelo. Ma siccome non GLI piacevano i numeri frazionari, decise che 23.165 w. a testa sarebbe stato un numero “perfetto”, e così fece. Alla fine, però, GLI avanzarono un bel po’ di w. e non sapeva che farSEne. E siccome nel nostro universo vige il principio “nullasicreanullasidistrugge”, come fanno quelli che, dopo aver spazzato il pavimento, nascondono le briciole rimaste sotto il tappeto, prese i woodcock  avanzati (e non erano pochi) e li usò tutti nell’ultimo cherubino ancora da plasmare, sperando che nessuno se ne accorgesse. Ma come sarebbe mai stato possibile non accorgersene viste le dimensioni di quell’angelo: altro che “cherubino”, “CHERUBONE” lo si battezzò subito. Era abnorme, in tutto: irradiava una luce accecante, aveva ali grandi come vele di nave, era alto quattro volte gli altri, aveva una forza mostruosa, occupava da solo mezzo loggione quando era l’ora della Gloria, ma soprattutto emanava bontà e gentilezza e calma serafica tali che solo standogli vicino si sprofondava nella beatitudine.
Eppure LUI SE ne vergognava (o forse ne provava invidia). Era la manifestazione esistente, e lo sarebbe stato per l’eternità, della sua incapacità come COSTRUTTORE. E decise di sbarazzarsene. Con la scusa dell’insolenza che il Cherubone avrebbe dimostrato durante la Gloria perché aveva cantato con troppo fervore, quindi con “intento ironico”, decise di relegarlo in un pianeta lontano, periferico, la Terra, nella più squallida delle galassie minori, la Via Lattea, una specie di culdesac, dove sperava che il Cherubone sarebbe stato dimenticato…
Ma chi di noi l’avrebbe mai potuto dimenticare?

venerdì 9 settembre 2011

Ci sarà pure un dio del rugby...

In occasione del mondiale di rugby, iniziato oggi,  mi fa  piacere pubblicare un racconto, scritto qualche anno fa, in onore dello sport più bello..
 
CI SARA’ PURE UN DIO DEL RUGBY…

Albert “Bull” McTail non era nato per il rugby. Il rugby era nato per Al “Bull” McTail.
Se nell’Atene del IV secolo si fosse giocato a sphaira ogeides (palla ovale), a Platone, mentre passeggiava all’ombra dei colonnati dell’Accademia, volendo esprimere l’idea di “rugbità”, sarebbe bastato mostrare ai suoi allievi il famoso Megathymos Tayros Ourà, l’invitto campione olimpionico di rugby ellenico.
Invero, già alla nascita, il piccolo non diede alla madre neppure il tempo di sentire la prima doglia che aveva già cominciato a spingere come un matto e, se non fosse stato per la prontezza della levatrice che lo trattenne con le robuste braccia da lavandaia, sarebbe finito a terra trascinandosi dietro  ostetrica, cordone ombelicale e puerpera.
Sarebbe stato possibile non affibbiargli il soprannome di “Bull”, quando cominciò a camminare a sei mesi, spingendo da solo la carrozzina con la testa e le “manine” già grandi come mezzi badili? Oppure, appena all’asilo (ma andrebbe bene per l’intero ciclo di studi), dove risolveva le poche liti con una semplice testata che mandava nel mondo dei sogni qualsiasi imprudente rompiscatole? E quando nessuna maestra, e neppure il più robusto dei bidelli, riusciva mai a trascinare fuori della classe quel bambino che, certo delle proprie ragioni, puntava le gambe e non c’era verso di spostarlo di un centimetro? 
Ci si aspetterebbe che a tanta forza corrispondesse limitata intelligenza, e invece Albert era davvero acuto (a scuola sempre uno dei migliori), e anche un po’ filosofo. Fin da bambino aveva capito il senso della vita (ammesso che esista). Non un’infanzia candida, macchie di dolore qui e là: la morte dei nonni affettuosi, la lunga malattia della madre, la separazione dei genitori, e la consapevolezza che il tempo passa, altroché passa, e la giovinezza dura poco, troppo poco. E’ per questo che Al, a meno di provocarlo fino all’esasperazione, non se la prendeva mai. Dall’alto (si dovrebbe dire “dal grosso”) della sua forza e stabilità, dispensava a tutti serenità di giudizio e calma serafica. Era una sorgente di energia positiva. Stargli vicino significava sentirsi bene, rilassati. Lo si sarebbe potuto assumere come gigantesco orso di peluche, oppure cuscinone da divano, e avrebbe garantito consolazione e conforto. Fortunati quelli che lo avrebbero amato e che sarebbero stati da lui amati.
Esaurita la premessa, chi potrebbe immaginare che al dio del rugby sarebbe potuto sfuggire un tale esemplare? Già, il dio del rugby…
C’è chi si domanda dove siano finiti gli dei. E spesso ce lo si domanda con nostalgia. Gli dei erano roba nostra, vicini di casa da ammirare per la forza, non per l’inarrivabile perfezione. Che ce ne facciamo di un dio indifferente, accigliato, sempre pronto a giudicarci, che manda il proprio figlio al massacro. Ma che dio è uno che sacrifica il figlio? Vuoi mettere quello cui ci si può rivolgere come all’amico che ti protegge dai bulli del quartiere, che rutta più fragorosamente di tutti e si fa le ragazze più belle? Questi erano gli dei dell’Olimpo. Forse gli immortali si aggirano ancora tra noi, ciascuno con le proprie energie intatte, gelosamente custodite e pronte a riemergere quando il più giovane dio di ebrei e cristiani sarà definitivamente sfrattato da questo mondo.
Uno Zeus in jeans e camicia beve una birra, seduto su una panchina, ai docks di Londra. Si diverte a osservare i facchini che si affaticano intorno a grandi casse da scaricare. Ah, gli umani! Non si è mai abituato del tutto a queste povere creature che si affannano come fossero eterne, e  la cui vita è invece così breve. Dopo migliaia di anni gli hanno suscitato una tale compassione che avrebbe voluto cambiare la legge e renderli tutti immortali, ma non ha il potere di farlo. Fino a quando ci sarà l’Altro, che ha decretato la morte come irrinunciabile condizione della specie umana, non potrà fare niente.
A zonzo per il mondo, gli dei, attenti osservatori dei miseri esseri umani, si preoccupano di preservare i più meritevoli, coloro in cui risplende la loro stessa scintilla divina, dall’oblio, dall’anonimato, dalla morte prematura. E’ il solo modo che hanno di restituire alle donne e agli uomini ciò che il destino ha tolto loro. Certo, non ce la fanno per tutti, ma solo per alcuni. Per quanto si impegnino, sono molti di più quelli che sprofondano nella polvere del tempo. Vedi quel giovane pastore errante dell’Asia che spinge il gregge oltre i più lontani orizzonti e parla con la luna? Chi sa che in lui potrebbe germogliare il più grande scrittore di tutti i tempi, quello che troverebbe con naturalezza la perfetta sintesi letteraria tra Occidente e Oriente? Dov’è quel dio che lo salverà dai lupi famelici della steppa per accompagnarlo, qualche decennio più tardi, a Stoccolma a ritirare il nobel? Generazione dopo generazione, gli dei ne salvano centinaia, a volte migliaia. Eroi, artisti, campioni, geni, santi sono opera loro. Non sappiamo riconoscere nel cercatore di talenti, nella maestra, nell’allenatore, nel cacciatore di teste, nell’insegnante, nell’impresario, nell’agente, Ares o Febo Apollo, Atena o Afrodite, Hermes o Poseidone, Era o Artemide.  Sotto spoglie mentite, celano la propria terribile, insopportabile bellezza, e donano ai loro prescelti perlomeno l’immortalità nelle pagine dei libri che saranno sfogliati nei secoli.
Torniamo ad Al.
Il piccolo Al viveva a Castletown, uno dei paesi più desolati, sulla costa, all’estremo nord delle Highlands scozzesi, quasi di fronte alle isole Orcadi. Al apparteneva al clan dei McTail, detti così perché da sempre tutti i membri della famiglia portavano i capelli lunghi con la coda. Il padre era il maestro elementare della scuoletta locale, la madre impiegata nell’unica banca del paese. A sei anni, mentre tornava da scuola, Al venne sfidato a “spingi tu che spingo io” (un’usanza delle sagre locali) da alcuni compagni. Da una parte Al, dall’altra otto bambini. Mentre Al li ricacciava indietro, passo dopo passo, il dio del rugby, avvertito forse da Hermes che instancabilmente vola da una parte all’altra del pianeta, si materializzò nei panni di un vecchio allenatore inglese di rugby, tale John Woodcock, il quale, malgrado tante ne avesse viste, sgranò incredulo gli occhi e seduta stante decise di andare a parlare ai genitori del piccolo. Fu così che tre giorni dopo quel colloquio, Al si ritrovò a Londra, nella “fortezza” di Twickenham, per il suo primo allenamento. La voce si era diffusa e lo stadio era pieno come se avessero giocato i Leicester Tigers. L’allenatore spiegò con due parole a quel bambino che cosa avrebbe dovuto fare: “Spingi, ragazzino!”. E quello spinse, e spinse, e spinse,  finché il pacchetto avversario venne portato a destinazione oltre la linea di fondo del campo. Da quel giorno in poi Albert McTail non smise mai di spingere.
La mischia era pane per i suoi denti, muleta rossa per le sue incornate. Piantava i piedi nel fango e giù di collo e spalle, di braccia e di gambe. Per gli avversari era come spingere contro il toro di bronzo di Wall Street, “Bull” appunto, e non c‘era verso. Quando Al spingeva, il pack avversario si apriva come il mar Rosso al cospetto di Mosè, si squarciava come la fiancata del Titanic di fronte all’iceberg, si alzava come umida terra davanti al vomere. Era indifferente metterlo pilone sinistro o destro o addirittura tallonatore. Ovunque si posizionasse avanzava e avanzava e ogni volta la palla era conquistata. Anno dopo anno, Al non sbagliò mai una mischia. La sua fama crebbe. Rimase sempre la stella di tutte le formazioni dei Tigers, della nazionale inglese (in cui giocò per tutta la carriera, malgrado fosse scozzese, perché lì crebbe come atleta e come uomo) e dei British and Irish Lions. Venivano a vedere i suoi 185 centimetri d’altezza per 125 kg di peso da ogni parte del mondo. Dalle terre inglesi all’Argentina, dalla Francia al Sudafrica, dall’Australia alla Nuova Zelanda, fino alle più lontane isole del Pacifico. In una di queste, tra le più sperdute, Niue, si diffuse un vero e proprio culto, quello di Tahili, il giovane dio che sposta i vulcani.
Naturalmente non si contano le mete che Al riuscì a realizzare in innumerevoli partite. Quando, in un modo o nell’altro, riusciva a prendere la palla nei ventidue avversari, era oramai troppo tardi per arginarlo. Che si mettessero in due, tre, oppure quattro, “Bull” sfondava e schiacciava la palla a terra, e ogni volta erano ovazioni di tutto il pubblico in delirio,  di entrambe le tifoserie. Godeva della stima di tutti, mai una protesta con l’arbitro, mai una furbizia con gli avversari, mai una cattiveria, solo pura determinazione, lealtà e tenacia. Un uomo di altri tempi, purtroppo, che avrebbe fatto sfigurare i cavalieri della tavola rotonda.
E veniamo all’impresa per la quale, anche non avesse fatto altro, sarebbe stato ricordato per sempre negli annali del rugby. Ai mondiali del 2011 in Nuova Zelanda, ovviamente gli All Blacks arrivarono come i favoriti dai pronostici, mentre gli inglesi erano dati come l’unica nazionale europea che avrebbe potuto rovinare la festa ai neozelandesi. Il girone eliminatorio, i quarti e le semifinali diedero ragione ai bookmakers. Gli All Blacks sfoderarono la migliore nazionale dal 1987 e travolsero tutte le squadre avversarie con punteggi da basket. Si pensi che in semifinale distrussero il Sud Africa 61 a 9. Gli All Blacks non subirono mai una meta e ne fecero a decine. Dall’altra parte l’Inghilterra ebbe un percorso decisamente meno brillante. Anche gli inglesi non subirono neppure una meta, ma ne segnarono molte meno, e in semifinale furono a un passo dall’essere eliminati dalla Francia: vinsero 7 a 6, ma il mediano francese sbagliò una punizione all’ultimo minuto.
Il giorno della finale il cielo era cupo e pioveva a dirotto. Il rugby non si ferma mai per impraticabilità del campo e quindi si giocò. Le due squadre  si affrontarono in una specie di palude e furono devastate dalla fatica. All’89’ la Nuova Zelanda stava vincendo 3 a 0. Una punizione di Carter, nel secondo tempo, sembrava aver avuto ragione degli ostinati inglesi. Fu a un minuto dalla fine che Al ebbe la palla nei propri ventidue e decise che non l’avrebbe passata. Gli vennero in mente le parole di Churchill quando, nel 1940, disse ai suoi connazionali: “Vi prometto lacrime, sudore e sangue”. E alla fine il Regno Unito aveva pur sconfitto l’Asse. Al pensò che nessuno, avversario o compagno, gli avrebbe portato via quella palla. Al pensò che nessuno, avversario o compagno, lo avrebbe fermato. E andò. La squadra era larga, schierata per l’attacco, in attesa che Al passasse. Ma The Bull non passò e cominciò  ad avanzare dritto per dritto. Alla linea dei 10 metri nella propria metà campo, dopo che aveva travolto tre o quattro All Blacks, tutti avevano capito le sue intenzioni. E a centrocampo si formò la maul inglese, con  tutti e quindici i giocatori, Al in testa, l’ovale ben stretto tra le mani.  A loro volta tutti gli All Blacks cercarono di formare un muro davanti a quel rullo compressore. A quel punto Al cominciò a “pompare” sulle gambe, come si dice nel gergo del rugby. Metro dopo metro, nel fango, nell’acqua, nell’erba fradicia di pioggia e sputi, calpestando uno dopo l’altro gli avversari  che cadevano e poi correvano a rischierarsi, Al avanzò. Alla linea dei 10 metri il pubblicò urlava ancora. Poi, lentamente, lo stadio, un po’ alla volta, ammutolì. Alla linea dei 22, con The Bull che si stava trascinando dietro tutta l’Inghilterra, con gli All Blacks che cadevano come birilli, il panico si diffuse in tutta la Nuova Zelanda. La maul inglese procedeva come la prua d’acciaio di una nave rompighiaccio che frantuma il pack. A cinque metri dalla linea di meta, gli All Blacks tentarono l’ultima, disperata difesa e riuscirono per un attimo a staccare Al dai compagni. Ci fu un boato del pubblico che aspettava di vedere il pilone inglese franare finalmente a terra, placcato dai quindici neozelandesi. E fu allora che il dio del rugby sorrise. Al entrò a testa bassa nel pack avversario, da vero toro. Scomparve con la sua maglia di fango, che era stata bianca, nella massa nera degli All Blacks.
E fu meta.
E fu silenzio. 
Poi, mentre gli All Blacks, “aiutati” dagli inglesi che li strattonavano, si alzavano uno dopo l’altro dal mucchio sotto il quale c’era Al, uno spettatore cominciò ad applaudire e in breve tutto lo stadio iniziò ad applaudire e a scandire in coro il nome di Al. Il fatto è che Al non si alzò per ricevere l’abbraccio dei compagni, né le ovazioni del pubblico, né poté alzare al cielo la coppa del mondo vinta per la seconda volta dall’Inghilterra, né ritornò in patria per godere del trionfo in Trafalgar Square. Il suo grande cuore non ce l’aveva fatta. L’immenso sforzo l’aveva spezzato. E il dio del rugby, per la prima volta da quando era dio, cioè da sempre, pianse…

martedì 1 marzo 2011

Il vecchio

Cominciamo con un racconto, scritto qualche anno fa, dopo la morte di mio suocero. Il vecchio Leandro era un brav'uomo, un padre e un  nonno affettuoso. Di lui impressionavano, tra le altre qualità, il robusto appetito e le incredibili capacità digestive. Noi, che l'abbiamo conosciuto e amato, ricordiamo quella volta in cui fummo quasi sterminati da una partita di ostriche "freschissime" e lui avvertì solo qualche insignificante brontolio all'intestino... Da quell'episodio mi è venuta l'idea di questo racconto. Buona lettura.

Il vecchio

Era nevicato tutta la notte. Ancora. Pesantemente. Sembrava non finisse mai. E c’erano quelle  foreste. E quelle montagne. E poi la neve. Nient’altro che quella sterminata distesa bianca e fredda su ogni cosa. Terra, acqua, cielo, piante, animali. E uomini. Dronk non sapeva se il clan ce l’avrebbe fatta. E’ vero che ogni inverno era stata dura, ma mai come questa volta.
Dei settantadue membri del clan erano rimasti in quarantasei. Pilna e i suoi due figli, Ullo e suo padre, Sder, Varsa,  Gunde e gli altri: tutti sepolti, con le loro armi e i loro amuleti nella neve. A primavera i lupi avrebbero avuto carne in abbondanza quando la pioggia e il sole avrebbero scacciato il gelo. Forse. E gli altri clan che si erano rifugiati al sud sarebbero tornati come belve feroci e li avrebbero sterminati, se ne avessero trovato qualcuno vivo.
Ancora una volta aveva avuto ragione lui. Lendar, il vecchio. Aveva detto a Dronk di spostarsi a sud, come gli altri. L’autunno aveva dato segni inequivocabili di quello che sarebbe stato l’inverno. Ma Dronk non aveva voluto ascoltarlo. Era stanco del sangue. Troppi morti, da una parte e dall’altra. Soprattutto con il clan di Rongor. Temeva che spostarsi a sud avrebbe significato continuare lo sterminio. E i due clan si sarebbero indeboliti ancora di più. E altri clan ancora più temibili erano in agguato. E poi aveva sperato che l’inverno volgesse al meglio, com’era successo altre volte. Dronk aveva detto che bisognava seguire il grande branco degli alci. E così era stato. Ma da undici settimane era come se gli alci si fossero dileguati. E con loro tutti gli altri animali e le piante. La neve aveva divorato tutto. Non c’era più niente da fare.  Ci sarebbero stati altri quarantasei morti. E lui per ultimo. Li avrebbe seppelliti tutti, uno per uno, perché era il più forte. Ma lui sarebbe rimasto insepolto. Che gli dei avessero pietà di Dronk.
Nella piccola caverna dormivano ancora tutti. Solo Lendar era sveglio, seduto vicino al fuoco che aveva alimentato per tutta la notte. Dronk gli si avvicinò. Il vecchio come al solito stava masticando una delle sue radici legnose che gli avevano devastato i denti ma reso le gengive dure come lame di selce. Da quando era bambino Dronk ricordava Lendar come un vecchio. Sembrava che il tempo lo avesse dimenticato. E Lendar aveva continuato a fare il suo dovere. Come anziano spettava a lui  mangiare piante e animali sconosciuti. Poi il clan aspettava un giorno. Se Lendar sopravviveva, mangiavano tutti. Sembrava che gli dei amassero Lendar. Mai che avesse sbagliato una volta. Quando s’imbatteva in un fungo o una bacca o un insetto sconosciuto, lo fiutava a lungo. Poi lo mangiava con sicurezza, oppure lo buttava. Mai un errore. E il clan lo considerava ormai uno sciamano, anche se lui si scherniva e diceva che lo sciamano era solo Wodan. La sua era solo esperienza. E un bel po’ di fortuna. Tutto il clan ricordava di quella volta in cui Koln lo aveva contraddetto su un fungo bianco dal lungo stelo. Mai avevano visto un uomo vomitare le proprie viscere. E mai più lo avrebbero visto fino a quando Lendar fosse stato l’anziano del clan.
Ma questa volta anche Lendar non avrebbe potuto fare niente. Dronk lo abbracciò. Lendar lo guardò          
come un figlio. Senza rimprovero. Il vecchio sapeva che Dronk era stato un buon capo e non gliene voleva per quella decisione sbagliata. I capi sono uomini. I capi sbagliano.
L’alba era grigia ma non nevicava più. Dronk svegliò il clan e ordinò di mettersi in marcia. Restare lì non aveva senso. Tanto valeva fare un ultimo tentativo. Il clan si mise in cammino. Un serpente di uomini, donne, bambini vagava senza meta. Silenzioso.
Come sempre Lendar si era allontanato dagli altri. 0gni tanto lo si vedeva da qualche parte. Sbucava su un’altura, o da una foresta. Quando trovava del cibo emetteva un fischio potentissimo. Ma erano undici settimane che Lendar taceva. Ma verso mezzogiorno, mentre un piccolo  sole bianco sembrava avere fatto breccia nel cielo di pietra, il fischio di Lendar riecheggiò nella valle. Lendar apparve in alto, oltre gli alberi. Dronk fu il primo ad arrivare. Poi gli altri. Lendar li condusse a una grotta e con una torcia li guidò attraverso uno stretto cunicolo, finché sbucarono in una grande caverna. Al centro un fiumiciattolo finiva in una pozza d’acqua cristallina. E nella pozza nuotavano migliaia di piccole salamandre bianche e senza occhi. Alcuni affondarono le mani nell’acqua, ma Dronk li fermò. Neppure in questa circostanza poteva essere violata la legge dell’anziano. Tutti si sedettero. Lendar accese il fuoco. Affondò una mano nell’acqua. Prese una manciata di piccole salamandre. Se le mise in bocca. Cominciò a masticare. E quando ogni tanto apriva la bocca, si poteva vedere qualche rettile che ancora si dibatteva vivo tra le gengive di legno.
Completato il pasto, Lendar si rannicchiò vicino al fuoco e chiuse gli occhi. Il clan rimase a osservarlo per tutta la notte. Per tutta la notte ogni respiro di Lendar era del clan. Ogni suo sospiro, ogni brontolio, ogni contrazione erano la vita o la morte del clan. All’alba, quando Lendar aprì gli occhi e sorrise dalle fauci sdentate, Dronk diede il via libera e l’urlo del clan riecheggiò nell’alta volta della caverna.
La mattina dopo, come Lendar sapeva, erano tutti morti. Le bianche salamandre di Svangard non perdonano. Il vecchio raccolse i suoi amuleti e le sue armi. Strisciò lungo il cunicolo e, quando fu fuori, prese delle pietre e chiuse l’imboccatura. Una degna sepoltura per il clan di Dronk.
Nevicava ancora.
Un vecchio, solo,  si allontanava nella bianca distesa...   

sabato 19 febbraio 2011

E così è andata...

Ci sono ancora delle lettere di Bepi a Nina, cartoline, biglietti d’auguri ecc., tutti tra il 1944 e il 1955, ma ormai  il fidanzamento era solido (niente più crisi, gelosie, minacce di abbandoni, restituzioni di fotografie e regali…).
E infatti i due giovani si sarebbero sposati il 21 maggio 1950. 
Da quello che si evince dalle carte degli anni ’50, Nina e Bepi ebbero almeno due figlie: Albertina e Gianna, ma per ora non sono riuscito a rintracciare alcun parente per farmi raccontare qualcosa di più. 
Nello scatolone c’erano anche testi di poesie  e canzoni, scritti da loro, e delle foto (ma non li ho individuati  con sicurezza).
E così è andata la storia di Nina e Bepi.... 
Spero che qualcuno, pur non avendoli mai conosciuti, si ricorderà di quei due ragazzi veneziani che, a dispetto della guerra, della dittatura, della fame, pensavano soprattutto all'amore, l'unica cosa per cui vale davvero la pena di vivere.
Che riposino in pace. 
Insieme.

Tuo per la vita...

15/2/1944 (Bepi a Nina)
Mia carissima Nina
Eccomi che arrivo a te con una mia nuova, in risposta alla tua di ieri.
Per prima cosa voglio ringraziarti del tuo pensiero gentile nell’inviarmi dei dei dolci, che accolsi con piacere, perche vedo che ti ricordi sempre di me. Però sono molto spiacente di non poter contraccambiare questo tuo pensiero.
Da questa mattina cominciai ad alzarmi dal letto, ed ora attendo con ansia il dottore per poter poi muovermi e trascorrere una mezzora in tua compagnia.
Ora ritorno in risposta alla tua lettera dove tu mi dici di fumar meno, io in questo volevo dirti se ti piacerebbe che io mi levassi completamente il vizio, questo e l’altro, che ne diresti?
Tu certo mi dirai che ti piacerebbe molto, all’ora sai che penso : di mettere a parte tutti i soldi miei e tui, ma non assieme agli altri, il perché te lo dirò a voce.
Oggi dato che sono alzato e che hai tanta voglia di vedermi, come certo ne ho io, verrò per un momento sul balcone, però non chiedermi di più, altrimenti non mi vedrai più per una settimana.
Consegna a Annamaria la penna stilografica perché possa impenirtela.
Anche oggi ti lascio perché per il  momento non ho altro da dirti, però mi resta una sola cosa da fare, inviarti tanti bei bacioni allegati coi più cari saluti da chi sempre ti pensa – ti ama – ti adora – e ti abbraccia stringendoti profondamente con infiniti baci.
Tuo per la vita
                                                                                                                                                                              Beppi
Mi ami? Si!
Mi vuoi tuo per sempre? Si!
All’ora aspettami e prega che venga presto il dottore.
                                                                                                                                                                      G. Giuseppe